BRERA DOVE SEI?
Vi sono luoghi che ti appaiono all’improvviso. Restando poi impressi, nei tuoi ricordi, per via di quel determinato momento o per quanto esso abbia potuto, in certo senso, modificare il tuo futuro.
Altri invece sono andati sedimentando la loro presenza, giorno dopo giorno, senza farsi troppo notare. Forse per una loro natura storica, accettata senza eccessivo indagare, quindi scontata.
Credo sia questo il motivo per il quale quelli di noi che sono ancora rimasti, guardano al palazzo di Brera come a un elemento preesistente la loro frequentazione. Quindi logico, in codesto imporsi quale simbolo di un quartiere. Perlomeno con il nome.
Ma non così determinante.
Nell’inverno 1945 andavamo riappropriandoci di una città che, per qualche anno, era parsa per troppi versi ostile. Diversa, comunque, da quella conosciuta negli anni del liceo. Dei pantaloni lunghi, delle prime sigarette. E delle prime ragazze. Erano venuti anni bui, marcati da inverni ancora più freddi. Ritmi scanditi dal suono delle sirene che preannunciavano nuove distruzioni. O nel rumore dei passi di una ronda che andava cercandosi nella notte.
Non era un inverno metereologicamente dissimile. Milano iniziava a fasciarsi delle sue nebbie dal mese di novembre. Assumendo man mano un suo aspetto irreale, per via di questo apparire e scomparire di case e persone. Immerse in codesta ovatta bigia che attutiva i rumori di fondo. Rendendo più evidenti, come su un altro piano, i clacson delle rare automobili, ma soprattutto lo scampanellio martellante dei mezzi pubblici. Un tintinnio nevrotico che, alla fine, risultava familiarmente accompagnatorio.
A Brera si stava a disegnare con il cappotto, o un qualsiasi giaccone. Le modelle immobili, fianco alle grosse stufe, andavano arrossandosi da un lato. Mentre l’altro restava livido pur dopo cambiata la posa. Le mani tremavano fredde, dentro. Come se invece di reggere il carboncino ti fosse capitato, tra le dita, un candelotto di ghiacci
Quando uscivi sentivi il bisogno di un locale che fosse caldo, non solo per i gradi, ma pure per l’atmosfera. Che andasse facendosi logicamente tuo. Pure se non ancora completamente. Così dei rari Bar del quartiere non rivivo immagini stupefacenti. Però una atmosfera di accoglienza, frammista al tuo senso di appartenenza ad una categoria precisamente definita. Eri uno studente di Brera e quella era casa tua. Caffetteria o trani che fosse, purché rifugio per una sosta sia lunga sia breve da condividere con altri. Qualche professore, molti cosiddetti artisti, parecchi abitanti del quartiere, per lo più artigiani, che passavano il loro tempo libero discutendo se parigliare o sparigliare. Quando non si addentravano nel più criptico mondo del tresette. Privilegio generazionale.
Certo vi erano presenze fisse, tra le quali spiccavano personaggi già allora noti. Ma molti dei nomi che ora si sentono citare, quali pietre miliari, a testimonianza della cultura cittadina nomade di allora, erano avventori di passaggio. Mentre la vera atmosfera nasceva dalla mescolanza di comprimari diversi, perfettamente integrati a formare un mondo, non uno spettacolo.
Quello che quasi irrita, molti di noi, è sentir parlare di Brera come di un giardino zoologico. Composto, perlopiù, da animali feroci. Che traevano ispirazione e appetito sorvegliandosi l’un l’altro, senza accorgersi di comparse e scomparsi. Come se nel Parnaso non restasse tempo per discorsi comuni e dispute terrene. Mentre il maggior pregio del luogo stava nella sua disarmante semplicità, nell’essere come doveva essere o meglio come era andato formandosi negli anni.
Invecchiando, lentamente, come il grande palazzo voluto da Maria Teresa. La quale sentiva questa Milano quale capitale morale, nel sud del suo vasto impero. Capitale che si meritava chiese, palazzi e luoghi del fare cultura. Come l’accademia, con tutto quanto vi stava dentro. Ma anche quanto, inevitabilmente, e fortunosamente, vi stava attorno. Non come teatrino bensì come modo di vivere.
Ho frequentato Brera per otto anni. Quotidianamente direi. Prima pittura, con Aldo Carpi, poi scenografia con Reina. Uno dei maggiori conoscitori delle teorie prospettiche, scomparso, purtroppo, senza lasciare testimonianze. Terminati i corsi, spesso trovavo il tempo per tornare, malgrado avessi iniziato a lavorare professionalmente. Tornare nel quartiere, intendo. Mentre l’Accademia andava facendosi più polverosa e remota, per nulla intressante o interessata.
La mia frequenza al Jamaica era saltuaria e irregolare, anche se il locale stava divenendo sempre meno popolarmente accogliente però sempre più divertente. Stava diventando di moda.
Per alcuni anni noi, di scenografia, eravamo stati adottati dalla Titta. Un gruppo molto solidale, decisamente impegnato, quindi noiosamente critico nei riguardi di certi artisti.
Irrimediabilmente dispersivi. Forse troppo legati ad un vecchio concetto di boheme.
Quello della Titta, personaggio di cui si è persa memoria dopo la prematura scomparsa, era un bar piazzato sull’angolo Brera-Fiorichiari. Di fronte al negozio della Elena Crespi. Per chi non lo sapesse sul finire degli anni quaranta era stato un must.
Più tardi, negli anni cinquanta, la maggior parte di noi era occupata a metter famiglia ed a lavorare a tempo pieno, malgrado tutto. A certe ore del giorno, Brera tornava a essere accogliente e magica, anche per chi abitava lontano. Mentre la cultura milanese, compresa quella che si era formata sulle vecchie sedie, si espandeva oltre i confini, richiamando operatori non solo dalla vicina Svizzera. Milano stava realmente affermandosi capitale del design.
Pare incredibile che non esista una storia di Brera degli anni cinquanta e sessanta. Che in Accademia non sia rimasta memoria dei suoi corsi, né del percorso di docenti e allievi. L’unica storia che ci rimane è quella popolare, nel senso più ampio del termine.
Con la sua tradizione orale. Con i ricordi che ruotano attorno al Jamaica, tra le foto di quelli che da comparse si erano fatti primattori, non sempre riuscendo a coprire il ruolo assegnato. Con il passare degli anni scandito da nuove attività. Non abbastanza storicizzate perché ignote ai disinformati cronisti.
Come il Fiorioscuri, con quella grande tavola iniziale. Un altro modo di sentirsi “a casa” a Brera. Oppure il Ponte di Brera, con le sue jam-sessions indimenticabili. Infine certi compleanni di Mamma Lina. Personaggio grandioso, pur nella sua apparente fragilità, che meriterebbe più di molti altri di riposare al Famedio. Cosa sia stata la Brera di quegli anni non è poi così facile da raccontare. Proprio perché è stato un mondo tanto complesso quando semplice. Di una disarmante genuina semplicità. Un mondo vero, che forse è scomparso ma ha lasciato radici solide. Merito di chi allora, muovendo i primi passi nella professione, documentava le giornate. Perché il Jamaica è stato il più importante vivaio di fotografi italiani. Per altri, pittori o scrittori che fossero, è stato solo un bianchino a Brera. Per tutti, comunque, è stato il Jamaica, quello di Brera, quello dei nomi illustri molte volte capitati per caso. Quello dei famosi, scomparsi per sempre, ma soprattutto quello degli ignoti che hanno recitato la parte corale. La più importante, perché nasceva senza copione. Permeata di quella milanesità, ricca di aperture intellettuali, alla quale si allude con nostalgia.
Certo si parla sempre di Brera. Del trasferimento della Accademia, gonfiatasi oltre misura. Della Grande Brera sognata da Franco Russoli, dell’Orto Botanico sempre più malinconico, della specola ignota ai più, dei gessi dimenticati in cantina. Del Napoleone che metteranno in gabbia. Dei pochi nomi che hanno lasciato una traccia visibile del loro passaggio, tra i tanti che vi sono trascorsi. Della memoria che si affievolisce sino a scomparire.
Ma la vera Brera, quella che è assurta alla storia, è un pezzo di quartiere che vive ancora per merito di un bar dal nome esotico. Brera è il Jamaica.
giancarlo iliprandi